Nel serioso universo di Street Fighter, poco importa che tu sia un esperto di arti marziali giapponese, un pugile-dandy britannico, un asceta indiano, un freak della giungla o un gigantesco wrestler russo: quello che conta è il combattimento. Due personaggi, due barre d’energia e una varietà di situazioni e approcci tale da fare somigliare un round di Street Fighter più a un elegante incontro di scacchi eseguito a velocità warp che a una burbera scazzottata da strada.

Players celebra i 25 anni della saga di beat ‘em up a incontri più famosa del mondo con una retrospettiva preparata non tanto come una fredda lista di tutti i capitoli usciti negli anni (compito improbo e sostanzialmente inutile), ma per capire come e perché sia nato Street Fighter, quali molteplici forme ha assunto nel tempo e quale futuro attende l’epopea picchiaduristica di Capcom.

Round I – L’alba di Ryu e Ken (1987-1991)
Correva la metà degli anni ottanta quando Capcom, gelosa del successo riscontrato dai seminali Karate Champ (Data East, 1984) e Yie-Ar Kung Fu (Konami, 1985), pose lo sviluppo di un picchiaduro a incontri tra le priorità. A dirigere il progetto mise la coppia Takashi Nishiyama – Hiroshi Matsumoto, già responsabile del beat ‘em up a scorrimento Avengers e assunse ad hoc un graphic designer destinato di lì a poco a fare parecchio parlare di sé: l’allora ventiduenne Keiji Inafune; il progetto si concretizzò nel 1987 nello Street Fighter originale. A fronte di una forte derivazione dai due titoli citati sopra e un gameplay azzoppato dalla scarsissima reattività dei comandi installati sui cabinati dell’epoca, Street Fighter introdusse una serie di novità – tanto estetiche quanto di sostanza – che ne decretarono un buon successo sia in Giappone sia in America, tale da giustificarne un certo seguito.

Round II – Alla conquista del mondo (1991-1996)
Orfana di Nishiyama e Matsumoto (che di lì a poco verranno assunti da Shin Nihon Kikaku – SNK – per sviluppare alcuni dei più celebri rivali di Street Fighter, come le serie Fatal Fury e Art Of Fighting), Capcom, nella persona di Yoshiki Okamoto, assegnò l’onere di sviluppare un degno successore a Street Fighter al triumvirato Funamizu-Nishitani-Yasuda.

Dal primo capitolo furono mantenuti il caratteristico lay-out a sei tasti (nonostante fosse giudicato “troppo complicato” dai piani alti di Capcom, che premevano per un ritorno a un più classico schema a due tasti calcio-pugno) e i personaggi di Ryu, Ken, Sagat e Mike Bison (poi ribattezzato Balrog nei mercati occidentali, onde evitare problemi legati alla somiglianza con il più famoso Tyson). A questi si aggiunsero quindi E.Honda, Guile, Chun-Li, Blanka, Dhalsim e Zangief, ciascuno caratterizzato da uno stile di combattimento e da un moveset specifico.

Ma il vero colpo di genio fu di rendere tutti questi personaggi controllabili dal giocatore, una novità assoluta per l’epoca, che aggiunse infiniti strati di profondità al gioco e lo rese, fin dalla sua uscita nel 1991 un successo su scala planetaria. Per fare fronte alla domanda incredibile, furono spediti per il mondo qualcosa come 60.000 cabinati, un numero esorbitante che l’industria arcade non vedeva sin dai gloriosi tempi di Donkey Kong.

Come prevedibile, Capcom decise di sfruttare il momentum di Street Fighter II e introdusse sul mercato una serie gargantuesca di sequel, a partire da Street Fighter II Champion Edition (1992), che diede per la prima volta la possibilità di impersonare anche i quattro boss del titolo originale (M.Bison, Balrog, Sagat e Vega), portando così a dodici il numero totale di lottatori. Ça va sans dire, il mercato casalingo fu parimenti tempestato da sequel del gioco, caratterizzati spesso e volentieri solo da innovazioni – eufemisticamente – marginali. Questa strategia portò nel giro di pochi anni alla completa saturazione del mercato e, complice la forte affermazione di serie concorrenti (perlopiù prodotte dalla rivale “storica” SNK: tra le più importanti ricordiamo Fatal Fury, Art Of Fighting e The King Of Fighters), per la serie Street Fighter cominciò un lento quanto inesorabile declino.

[continua…]

Questa è la prima parte di uno speciale apparso su Players 13, che potete scaricare gratuitamente dal nostro Archivio.



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Pietro Recchi

Dopo aver inseguito per un lustro l’improbabile carriera di rockstar, Pierre (non è un soprannome, lo chiama così anche sua madre) ha deciso di tornare a buttare via il proprio tempo nel più tranquillo (?) ambito videoludico. Attualmente collabora festoso a Players e Single Player Coop. E’ l’unica persona esistente convinta che Milano sia la città più bella del mondo.

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2 Comments

  1. Bell’articolo!!!

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